REVIEWS
THEY CANNOT KNOW
 
THOSE TERRIFIC RIFFS
The 10 best jazz recordings of ’87, in order:
1. Geri Allen, Open on All Sides, in the Middle.
2. Dino Betti van der Noot, They cannot Know (Soul Note) – This Italian composer/arranger may well be writing the world’s most inventive music for jazz orchestra.
 
Neil Tesser – USA Today – December 17, 1987
 
 
IL “CASO BETTI”
Ripercorriamo la cronaca di quello che è diventato il “caso betti” per capirlo meglio. Fino al 1977 Dino Betti van der Noot, milanese d’adozione, di professione pubblicitario, è noto in una cerchia ristretta di jazzofili come direttore part-time della Basement Big band, un’orchestra che prova di sera in uno scantinato della sua abitazione e tiene ogni tanto qualche concerto.
In quell’anno esce il primo album, intitolato semplicemente con il nome dell’orchestra, per un’etichetta oggi non più operante, le Edizioni dell’Isola. Contiene sei brani standard e due composizioni di Betti che destano un notevole interesse. Dopo un silenzio piuttosto lungo, nel 1983 si stampa a cura della Five A Midwinter Night’s Dream, un long playing che – dice Betti – “segna per me il passaggio da una musica di superficie, che riesplora il repertorio delle grandi orchestre del jazz classico, alla proposta di composizioni mie. È una fase nuova: in cui sono predominanti dei contenuti che mi permetto di definire metafisici”.
L’orchestra, questa volta, è una formazione di studio composta tutta da professionisti, nella quale primeggiano solisti eccellenti. Il salto di qualità rispetto al disco precedente è evidentissimo.
Due anni più tardi, all’improvviso, si profila il “caso Betti”. Il compositore licenzia Here Comes Springtime, questa volta per la Soul Note che lo esporta anche negli Stati Uniti.
Mentre in patria l’accoglienza è discreta (il disco si merita il quinto posto nelle graduatorie annuali delle riviste Musica Jazz e Musica & Dischi), in Amerixa il successo è clamoroso: recensioni entusiastiche, aggettivi iperbolici e infine, quasi incredibile, il terzo posto assoluto nella graduatoria mondiale del quotidiano newyorchese Usa-today dietro a Methey-Coleman e a Pullen-Adams e davanti a Keth jarrett e a Branford Marsalis.
A questo punto Betti ci riprova con They Cannot Know, quartoe finora ultimo album, pubblicato come il precedente dalla Soul Note. L’esito è ancora più strepitoso. Il 6 settembre betti viene invitato a New York per concludere, alla testa di un’orchestra all American seppa di nomi famosi, il festival del Greenwich Village; la classifica dell’Usa-today vede al primo posto Geri Allen, ma betti si piazza secondo battendo Bill Bruford, Pat Metheny e Ed Wilkerson; Musica Jazz e Musica & Dischi, questa volta, lo proclamano primo. Quella che in principio era sembrata un’americanata (“Betti fa la musica per orchestra jazz più creativa del mondo”, hanno scritto a New York) diventa un giudizio unanime.
Come succede, il protagonista, che ha oggi cinquant’anni, si è accorto di tutto a cose fatte. “Dev’essere merito della mia età – afferma con convinzione –. Avere cinquant’anni è bellissimo. Qualche tempo fa non ero più capace di meravigliarmi, vedevo le cose dall’esterno, ero assillato dal mio lavoro di pubblicitario. Adesso ritrovo la gioia dello stupore, riesco agustare un libro, provo di nuovo il piacere della vita. Credo sia per questo che la mia musica abbia acquistato oggi un certo spessore, una certa qualità”.
Aggiunge dopo una pausa: “Ho scelto la composizione fin da ragazzo perché so di essere un pessimo esecutore. Treny’anni fa scrivevo partiture seriali… Adesso ritengo di fare una musica piena di feeling, con un quid che le impedisce di divenatre sentimentale e prevedibile. Credo di aver trovato il modo di usare – senza copiare – tutti gli elementie i colori della grande orchestra, allo scopo di trasmettere delle emozioni molto sottili”.
Il suo sistema di lavoro è semplice. “Parto da piccoli spunti tematici e pervengo infine ad opere, mediamente, di una decina di minuti – spiega –. Uso sovente accordi ltersti, commistioni fra tonalità e modalismo, incertezze tonali, oscillazioni tra il maggiore e il minore. Assaporo già nella fase della scrittura il piacere dell’orchestra acustica, che credo non mi abbandonerà mai”.
Progetti? “Concerti e altri due dischi, cercando di dire comunque qualcosa di nuovo. Il primo è praticamente pronto, uscirà entro l’anno e si chiamerà A Chance for A Dance. Il secondo, che è appena al principio, m’incuriosisce fin d’ora perché è concepito per un organico più piccolo: tredici elementi, e cioè quattro fiati, tre vocalisti, due percussionisti, pianoforte, tastiera elettronica, basso elettrico e batteria anziche i ventitré che mi sono abituali”.
 
Franco Fayenz – Oredarte – primavera 1988
 
 
I like to tell stories” afferma Dino Betti van der Noot in un’intervista concessa a Ira Gitler che ha scritto le note di copertina.
Raccontare storie entra quindi nell’essenza musicale del compositore che attraverso la melodia cerca di dotarle emotivamente. Le storie, infatti, non convincono se raccontate da sole senza pathos, senza quel sound che ha portato “They Cannot Know” in cima al TOP JAZZ ‘((, referendum annuale organizzato dalla rivista specializzata Muica Jazz.
Un sound, una musica il cui valore a volte prevale su quello della storia che si vuole raccontare, un linguaggio asemantico ma costituito da una carica emotiva che comunque riempie di significato le variegate composizioni, Sarebbe quindi più corretto parlare di immagini più che di storie, figure che si muovono in un mondo complesso ma che nascondono una semplicità naïve piena di colori e qualità altamente magnetiche, evidenti soprattutto nelle introduzione di “Memories from A Silent Nebula” e di “A Midwinter Night’s Dream” dove i giochi delle percussioni arricchiscono fasci di luce che si proiettano verso lontane memorie sommerse nel sogno della notte.
Se la parola Midwinter – solstizio d’inverno – può far presupporre delle fredde atmosfere, queste invece non compaiono grazie alla calda improvvisazione di Hugo Heredia al flauto. Diverso è il “Midwinter Sunshine” in cui si intrecciano freddo, soliyudine, calore e amicizia in una sorta di mondo metafisico dove la realtà è sostituita dalla fantasia.
Similmente in “They Cannot Know” i break solistici di Rudy Brass alla tromba danno l’idea di un cammino lungo un deserto in cui è possibile, di tanto in tanto, trovare un’oasi di salvezza costituita dall’accompagnamento dell’intera orchestra e dalla consueta sicurezza che ci offre il sax di Bill Evans.
Oltre al riff, l’elemento che traspare con frequenza e che comunque è sempre ben presente è la melodia dalle suggestive sonorità, merito non solo del compositore e direttore Dino Betti ma anche dell’intero organico al quale basta dare un’occhiata per capire quale può essere il risultato ottenuto da un tale incontro.
Afferma Dino Betti van der Noot sempre a Ira Gitler: “I like to write melodies you can remember and unusual chord progressions able to make them more memorable”.
 
Serafino Paternoster – Frigidaire – aprile 1988