INTERVIEWS
Ivo Franchi – Jam – settembre 2005
 
Lo strano caso di DINO BETTI VAN DER NOOT
 
Di lavoro fa il pubblicitario, ma i suoi dischi anni ’80 hanno conquistato la critica jazz italiana e americana. Oggi Dino Betti van der Noot rompe un silenzio durato quindici anni con un cd dedicato a Itaca.
 
Milano, camera con vista su Brera. Uno dei tanti, bellissimi, insospettabili palazzi del centro. Dall’esterno, niente di speciale. Dentro un gioiello, sorprendente mescolanza di antico e moderno: pareti bianche, archetti con mattoni rossi e pavimenti in cotto. Al terzo piano, lo studio di Dino Betti van der Noot: pubblicitario di professione (è presidente della B Communications, una delle maggiori agenzie italiane) e musicista per passione.
È probabile che il suo nome dica poco o niente ai lettori di Jam. Quando il nostro giornale ha cominciato a uscire, lui aveva già smesso di incidere da almeno un lustro. Viceversa, a metà degli anni 80, dischi come Here Comes Springtime (1985) e They Cannot Know (1986) erano stati segnalati tra i migliori dell’anno e del decennio negli Stati Uniti e, successivamente, in Italia. Seguono A Chance For A Dance (1987-88) e Space Blossoms (1989), quest’ultimo nuovamente vincitore al referendum di Musica & Dischi. Si trattava di lavori molto liberi, figli di una poetica aperta, con echi classici, lievi rimandi etnici e passaggi di matrice afroamericana mescolati e riletti in maniera personalissima. Prove d’orchestra dove si ritrovavano insieme artisti contemporanei (il timpanista della Scala Jonathan Scully, il trombonista e improvvisatore radicale Giancarlo Schiaffini), jazzisti doc italiani (il clarinettista Gianluigi Trovesi, i sassofonisti Gianni Bedori e Sandro Cerino e persino il trombettista del Maurizio Costanzo Show, Demo Morselli!) e stranieri (da Paul Motian a Steve Swallow, da Mitchel Forman a Donald Harrison, da Paul Bley a Bill Evans, che fu il sassofonista dell’ultimo Davis).
Insomma, è uno strano caso quello del compositore e arrangiatore dalla bizzarra biografia. Classe 1936, nato a Rapallo, di origini lussemburghesi ma ormai di casa a Milano, una passione per la vela, jazzista dilettante e poi di successo, il cui nome compare persino tra le voci dell’autorevole The Biographical Encyclopedia Of Jazz, curata da Leonard Feather e Ira Gliter, due senatori della critica made in Usa.
Oggi Dino Betti è tornato. E il nuovo, struggente Ithaca/Ithaki (Soul Note/Ird: il titolo è ispirato a una meravigliosa poesia di Kostantinos Kavafis) rompe quel silenzio da sindrome da foglio bianco che lo aveva frenato per una quindicina d’anni. E dopo quindici anni ci siamo rivisti anche noi, per fare una chiacchierata, parlando di musica e poesia.
Potresti regalarci un autoritratto in poche parole?
Ci provo. La musica non è il mio primo lavoro, ma è importante nella mia professione di pubblicitario.
In che senso?
Scrivo jingle per i miei clienti.
Il più famoso?
Quello di Bauli, “Ba ba ba Bauli”, che penso quasi tutti conoscano. Ma, a parte la pubblicità, la musica mi permette di comunicare cose che altrimenti non sarei capace di esprimere. Cerco quindi di scrivere composizioni che abbiano un certo grado di poesia e di trascendenza, se posso adoperare questo termine. Ho bisogno di far passare determinate emozioni.
In effetti le tue composizioni diventano sempre più narrative col trascorrere del tempo. L’ho notato particolarmente in questo nuovo Ithaca/Ithaki
Pare anche a me, ma in realtà non so bene che cosa sto raccontando!
È il meraviglioso paradosso della musica. Come hai incontrato il jazz?
Da giovane ero un dilettante. Ho provato a suonare una gran quantità di strumenti, dal violino al pianoforte, dalla chitarra alla tromba e dal contrabbasso, perlopiù malissimo. Poi sono passato al sax tenore e al flauto in un gruppo di Vittorio Castelli. Sognavamo di mettere insieme una big band e alla fine ce l’abbiamo fatta. Poi Vittorio è andato per la sua strada…
E tu ti sei dato alla composizione…
Sì. E all’arrangiamento. Sempre nel poco tempo libero che mi lasciava, e mi lascia ancora, il mio lavoro.
Che cos’è stato il jazz per te?
La mia generazione è cresciuta con i 78 giri, che duravano circa due-tre minuti. Per questo i brani dovevano essere assolutamente riconoscibili, avere una forte caratterizzazione. Ecco: io vorrei scrivere così. Vorrei cioè che i miei pezzi – anche se in questo album ce n’è uno che dura quasi 22 minuti – fossero molto vari, diversi tra loro. Ognuno una storia. Non so se ci riesco.
Componi a mano, poi fai una simulazione a computer pensando già agli strumenti e ai solisti della tua big band. E dici che il compositore jazz deve sapere con esattezza quando scrivere e quando, invece, solamente suggerire…
Il solista deve aggiungere qualcosa al lavoro dell’orchestra, muoversi in certi binari ma con creatività: essere cioè libero e rigoroso al tempo stesso. Ecco perché credo che la melodia sia determinante anche negli assoli. Qui hanno lavorato benissimo, tra gli altri, il pianista inglese John Taylor, il mio amico Trovesi ed è stato straordinario e generosissimo Vincenzo Zitello con la sua arpa celtica. Una sorpresa.
Tu lavori prevalentemente in studio, incidi parti diverse del pezzo e varie sezioni dei brani, anche perché sarebbe impossibile e dispendioso avere l’orchestra al completo e poter fare le prove. Non senti mai l’esigenza di far suonare la tua musica dal vivo e di dirigere una big band?
Eccome! L’ultima volta mi è successo a New York, verso la fine degli anni 80. L’orchestra, tra i cui solisti c’erano anche Bill Evans e David Friedman, non aveva mai suonato e neppure conosceva la mia musica.  Inoltre avevamo pochissimo tempo per provare. Ero terrorizzato. Così, per l’agitazione, nei giorni precedenti al concerto mi è venuto un mal di pancia lancinante…
 
 
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